La nozione di reminiscenza
(la notion de réminiscence) conferenza tenuta a Parigi presso l'Ecole normale supérieure, nel marzo 2006 testo pubblicato in La sartoria di Proust: estetica e costruzione nella Recherche, a cura di Dario Ferrari e Paolo Godani, Pisa, edizioni ETS, 2010 traduzione di Dario Ferrari brano [...] È sorprendente che, in Proust, le reminescenze siano irriducibilmente molteplici. Esse si configurano come arcipelaghi di passato: sono di volta in volta reminiscenza di Combray, di Venezia, di Balbec. Ciò vale anche per le reminescenze senza riconoscimento, che sono eventi individualizzati, Martinville, Hudimesnil, il settimino. Non si dà la reminescenza che restituirebbe l’Uno in una sola estasi assoluta. A questo molteplice delle reminescenze corrisponde d’altronde quello che Mauriac chiamava "totale e terribile assenza di dio" nella Recherche, assenza che ha instancabilmente fatto inorridire la critica cristiana (non senza fondamento, almeno dal suo punto di vista), poiché effettivamente ben poche opere sembrano aver soggiornato in modo tanto tranquillo nella scomparsa di dio promessa da Nietzsche, descrivendo l’interiorità senza credo di una soggettività infinita. Una pienezza unitaria di natura mistica attraversa le molteplici esperienze della reminescenza, le quali tuttavia costituiscono di volta in volta, nel libro di Proust, la sola pienezza possibile, la pienezza più autentica e intensa. È in tal senso che queste intensità affettive sono esperite da una soggettività infinita. Essa non riceve dall’opposizione a un assoluto divino, o per lo meno fuori di essa, i segni di una finitezza, ma moltiplica, al contrario, quella che per lei è la sola esperienza di un assoluto. Ciò che detiene una tale possibilità di moltiplicare l’assoluto è propriamente infinito. Il soggetto esperisce la sua infinità e la sua immortalità in ciascuna reminescenza, ma questa esperienza, non avendo alcun limite fissato da un assoluto esterno, ha la possibilità di accrescersi in due modi: attraverso il numero delle reminescenze, e attraverso la loro comprensione, che ne intensifica la sensazione. Appena prima della matinée dai Guermantes, il narratore conosce, una dopo l’altra, tre reminescenze, e questa sequenza miracolosa costituisce un accrescimento delle risorse d’infinità del soggetto, una moltiplicazione dei segni del coraggio, che procura al narratore ciò che egli chiama – in modo significativamente triviale, poiché si direbbe che questa stessa forza è così potente da sospendere per un istante l’arte delle metafore – un "appetito di vivere" straordinario e inedito. Ma questa moltiplicazione va a beneficio anche di un approfondimento della conoscenza di questi eventi affettivi, inseparabile dalla loro intensificazione. Delle reminescenze il narratore dice che "il solo modo di goderne di più era tentare di conoscerle più compiutamente" (TR 456; it. 555-6). La pienezza ha dunque dei gradi, poiché varia in funzione del soggetto infinito. Un tale soggetto appare, in questa potenza e in questa pienezza, al termine di ciò che meriterebbe forse il nome di “meditazione cartesiana”, a condizione di segnalare che, sotto una prima somiglianza con Descartes e Husserl, il movimento di pensiero è qui, come si osserverà più avanti, rigorosamente opposto. Per poter comprendere la reminescenza, Deleuze ci chiede una decisione ontologica molto impegnativa: dobbiamo assumere non solo che il virtuale esista, ma anche concepire che questo in sé possa manifestarsi a noi così com’è. Questa lettura ontologica è inseparabile dall’idea che l’importante, nella reminescenza, sia il suo oggetto, poiché è dotato della virtualità come di una qualità inaudita. Ora, la molteplicità delle reminescenze porta a cercare l’unità del loro concetto non in un’oggettività verso la quale essa dovrebbe tendere, ma piuttosto nel soggetto che le esperisce. Nessun oggetto della reminescenza è designato a priori. Tutto ciò che ha avuto luogo può essere questo oggetto; tutto ciò che ha luogo può essere la sua occasione. Il narratore ne fa esperienza ai giardini dei Champs-Elysèes, in All’ombra delle fanciulle in fiore, allorché un profumo di umidità stantia, nei pressi di un gabinetto pubblico, provoca in lui una vera esaltazione mnemonica, poiché gli ricorda la stanza dello zio Adolphe, a Combray [1]. Si lamenta allora di commuoversi per una cosa tanto insignificante, credendo ancora, in quel momento, che la letteratura, alla quale aspira, debba occuparsi di idee importanti. In realtà, quel che si manifesta qui, e che tuttavia deve ancora essere scoperto dal narratore, è che la reale insignificanza dell’oggetto delle reminescenze e la loro correlativa molteplicità potenzialmente indefinita rendono le reminescenze stesse gli eventi di una soggettività, e non di un’oggettività, speciale. Qui le cose hanno un ruolo molto marginale, al pari degli esseri nella dottrina proustiana dell’amore, dove l’ultima parola spetta ad una forza solitaria del soggetto, capace di moltiplicare e rimpiazzare gli oggetti del suo desiderio e che sopravvive sempre, seppure dopo qualche dolorosa traversia, alla loro perdita. Esiste tuttavia una grande differenza tra l’amore e la reminescenza. L'amore lascia il soggetto a se stesso, tuttavia non lega questa presenza a sé alla scoperta di una verità. Il soggetto che appare all’inizio del Tempo ritrovato è solitario e superstite, ma è senza certezze né occupazioni. Nei volumi precedenti, l’abbiamo visto cercare a lungo dei luoghi e dei modi di vivere in cui, guardando da lontano, sembrasse possibile l’esperienza di una pienezza. La mondanità, l’amicizia, l’amore sono inizialmente desiderati come delle esperienze capaci di svelarci un segreto, la cui mancanza produceva l’inquietudine della nostra intera esistenza. Il libro racconta il compimento di queste esperienze tanto attese e l’esaurimento delle loro fonti. Esse crescono e rifluiscono come una marea. La fine delle Fanciulle in fiore espone il reflusso dell’amicizia, la fine dei Guermantes quello della vita mondana, la fine della Fuggitiva il reflusso dell’amore. Il narratore è andato al fondo di queste forme di vita, senza d’altronde che si fosse prodotto con ciò uno sforzo della volontà: sono state tali forme di vita a condurlo al loro proprio fondo, e l’intensità che ne circondava il desiderio si è dissolta. Ciò che resta è dunque un soggetto senza pienezza, e altrettanto senza verità. La verità, fino al Tempo ritrovato, subisce flessioni continue e straordinarie. Di piega in piega, essa ci lascia preda di un dubbio generalizzato. E questo è sorprendente se si esaminano i due tipi di verità con i quali il narratore si trova a confrontarsi in modo particolare, prima della fine: la verità affettiva e quella “investigativa”. La verità affettiva è quella per cui ci si domanda: amo veramente Albertine? Questa domanda dà luogo in prima istanza ad una molteplicità di piccole pieghe che si eliminano dicendo sì, poi no, poi sì e via dicendo. La scomparsa di Albertine provoca inizialmente una grande piega, che cancella le precedenti, con il suo sì doloroso e massiccio. Ma l’avvento dell’oblio cancella a sua volta questa grande piega (poco importa se dispiegandola o la ripiegandola su se stessa): resta ben poco di una nozione di verità al termine di tutte questi movimenti che piegano e dispiegano. La questione della verità investigativa sarà invece: cosa faceva Albertine, il tal giorno alla tal ora, in quel luogo, e con chi? Domanda che, a forza di essere ripetuta, dovrà confermare o confutare la sua vita di adepta al mondo di Gomorra. L’indagine è destinata a imprimere la piega di una convinzione, a fondarla o a disfarla definitivamente. Dopo la morte di Albertine, la lettera di Aimé, che pretende di raccogliere a Balbec l’inequivocabile confessione di una lavandaia, sembra effettivamente chiudere la questione. Ma ecco che durante una conversazione, Andrée afferma che Albertine non ha mai avuto i gusti che Marcel le attribuisce. Piega immensa, che sopprime la precedente. Poi, molto più tardi, Andrée confessa tutto l’opposto. E tuttavia esiste ancora un dubbio, poiché il narratore aveva già sottolineato che certe bizzarrie del suo carattere in certi momenti la spingono a dire esattamente ciò che – vero o falso che sia – potrebbe ferire il suo interlocutore. Ancora più avanti, Andrée enuncerà una sorta di chiave per tutti gli enigmi sul comportamento di Albertine, rivelando che dopo aver avuto la febbre tifoide era capace di gesti sconclusionati, di slanci o di ripensamenti improvvisi e immotivati, e che dunque non c’era alcun segreto, alcun senso dissimulato dietro le numerose incoerenze del suo comportamento. Deleuze aveva giustamente notato la presenza della follia nella Recherche; essa stravolge il presupposto della ricerca di una verità investigativa, ed è alla base delle perplessità e dei rovesciamenti in cui non cessiamo di essere coinvolti. Cosa si può affermare – domanda il narratore – avendo inizialmente creduto che Albertine fosse disponibile, poi essendosi scontrati con la sua ferma resistenza, e infine avendola conquistata senza problemi, "visto che ciò quel che dapprima si era ritenuto probabile, s'è poi dimostrato falso, e, in una terza fase, è risultato vero" (G 657; it. 436)? Il seguito resta aperto; sembra, nella Recherche, che ci sia sempre un quarto, un quinto, un sesto momento, e così via, indefinitamente. Potrebbe essere questa la formula generale della flessione della verità. La reminescenza è allora ciò che ricongiunge un soggetto al contempo ad una verità e ad una pienezza. Essa è forse, in questo senso, una sorta di cogito, a condizione di considerare il cogito secondo la sua funzione piuttosto che secondo la sua traduzione, come ciò che libera una prima certezza, come ciò che sopraggiunge al termine della ricerca di una verità primitiva – e si trova ad implicare un soggetto senza che si sia presupposta una sua posizione privilegiata. Certe pagine del Tempo ritrovato hanno il tono delle Meditazioni metafisiche. Ma la differenza con Descartes è grande, poiché qui la prima certezza è anche l’ultima. Essa sopraggiunge in extremis, alla fine del tempo, a seguito dell’esaurimento del mondo. Non c’è il gesto iniziale e volontario con cui si scarta ogni possibile illusione; al contrario, si indugia in esse, fino al loro intrinseco reflusso. Fedele all’ispirazione cartesiana, la fenomenologia esordiva sospendendo ciò che è dubbio e inessenziale; cercava così di ottenere una luce originaria, nella quale le cose sarebbero apparse, in qualche modo, allo stato primigenio, e nella quale si sarebbe vista apparire l’apparizione stessa. Il suo movimento proprio la trascina verso qualcosa di sempre più fondamentale, sempre più originario: Eugen Fink diceva giustamente che il problema della fenomenologia era quello dell’origine del mondo. Proust invita piuttosto a non cercare una luce se non nella fine del tempo, al termine di una traversata del mondo. La fine [l’ultime], e non l’origine, getta una luce di verità sulle cose: i veri biancospini sono i biancospini del passato, i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto. Ogni oggetto sembra in grado di essere il cogitatum di questo cogito. [...] [1] Cfr. JF 485; it. 597. |